DOMANDE E RISPOSTE FAQ 1. Quali sono gli scopi dello Studio Legale di Diritto Nobiliare? Lo studio, composto da iscritti nell’albo dei procuratori legali avanti i tribunali arbitrali della Corte Superiore di Giustizia Arbitrale, ha per scopo la difesa dei diritti dei nobili e dei gran maestri degli ordini cavallereschi avanti i tribunali di detta Corte 2. Le sentenze pronunciate dai tribunali della Corte Superiore di Giustizia Arbitrale  hanno gli stessi effetti delle sentenze pronunciate dai tribunali ordinari della Repubblica italiana? Si, le sentenze pronunciate dai tribunali della Corte Arbitrale, nella speciale materia regolata dagli artt. 806 e seguenti del codice di procedura civile, hanno gli stessi effetti della sentenza pronunciata dai giudici ordinari. In quanto, i tribunali della Corte Arbitrale sono organi di giurisdizione civile ordinaria, aventi, nella speciale materia, gli stessi poteri del giudice civile ordinario (commissione Tributaria di II grado di Roma, 19-11-1984, Temi Romana 1984, 913, e Cassazione 22-10-1991 n. 11197, Foro it. 1991, I, 701). La sentenza pronunciata dai giudici dell’arbitrato, quindi, “è una vera e propria sentenza emessa nell’esercizio di una funzione giurisdizionale di cognizione ordinaria” (Corte di Appello di Roma 18-2-1969, rep. Foro it. 159e  n. 88). Dopo la riforma del 2006, i suddetti orientamenti giurisprudenziali della teoria processualistica della convenzione arbitrale, sono stati recepiti dal legislatore italiano nel D. lgs 2 febbraio 2006, n. 40, con l’approvazione dell’art. 824 bis c. p. c. che testualmente recita: “… il lodo (sentenza arbitrale, n. d. r.) ha dalla data della sua ultima sottoscrizione gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria”. 3. Perché l’art. 824 bis c. p. c. usa la dizione lodo e non la dizione sentenza? La convenzione di New York del 10 giugno 1958, sul riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali straniere, resa esecutiva in Italia con Legge 19 gennaio 1968, n. 62, entrata in vigore il 1° maggio 1969 (G. U. R. I. n. 46 del 21 febbraio 1968), per sentenze arbitrali (art. 1 paragrafo 2) intende “le sentenze rese dagli arbitri”. Secondo taluni giuristi, tra i quali il prof. Giuseppe Mirabelli, primo presidente emerito della Corte di Cassazione, non appare soddisfacente, vista la completa assimilazione della sentenza arbitrale alla sentenza ordinaria, il mantenimento del termine “lodo”, anche se il relatore del disegno di Legge sul diritto dell’arbitrato del 1989, definì la questione “meramente formale” (M. Rubino Sammartano, Il Diritto dell’arbitrato, III edizione, Cedam, 2002). Sarebbe opportuno, pertanto, dopo la scelta processualistica del legislatore italiano del 2006, mutare il termine lodo con il termine sentenza arbitrale. Negli arbitrati internazionali il Tribunale Arbitrale nelle sue decisioni usa la dizione “sentenza”, come stabilisce la di  New York del 10 giugno 1958, ratificata dall’Italia con legge n. 62/68, entrata in vigore il1° maggio 1969. 4. In Italia come si può riconoscere un titolo nobiliare? La sentenza della Corte di Cassazione a sezioni unite del 20 maggio 1965, n. 987, ha stabilito che l’accertamento in via incidentale del titolo nobiliare è compatibile con l’art. 3 della costituzione italiana (principio della parità sociale dei cittadini). Negli accertamenti incidentali, secondo il Supremo Collegio, l’azione principale non è diretta a far dichiarare l’appartenenza di un titolo nobiliare all’attore e ad enunciarne il pubblico riconoscimento, bensì a riconoscere all’attore un diritto patrimoniale o di altra natura che è condizionato, nella sua esistenza, al possesso di uno status nobiliare. In questa ipotesi, come ben rileva la sentenza della Cassazione n. 987/1965, “non vi è alcun attentato alla pari dignità sociale dei cittadini, giacchè ben possano gli statuti di una associazione privata, le tavole di fondazione di un ente benefico, i regolamenti di vantaggi scolastici, le private disposizioni contrattuali e testamentarie, condizionare l’attribuzione di certi diritti a determinate situazioni obiettive dei destinatari, quale, ad esempio, quella di appartenere ad una famiglia considerata nobile”. 5. Il giudicato sostanziale si estende alle questioni accertate in via incidentale? La Cassazione con sentenza pronunciata il 13 marzo 2003, n.3737, r. v. 561132, ha stabilito che il giudicato sostanziale (sentenza passata in cosa giudicata, n. d. r.) si estende alle questioni accertate in via incidentale, se detto accertamento è collegato con il dictum finale, da non costituire un semplice presupposto logico della decisione, bensì l’oggetto, esso stesso, della statuizione finale. 6. In Italia dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 101/67, i tribunali ordinari non possono risolvere controversie di natura nobiliare, quali sono le conseguenze? In Italia i tribunali ordinari, dopo la pronuncia della sentenza della Corte Costituzionale n. 101/67, non possono decidere controversie di natura nobiliare. Oggi, solo i tribunali arbitrali possono riconoscere in via incidentale le spettanze nobiliari in capo all’avente diritto per fine patrimoniale. La riforma del diritto dell’arbitrato prevede che le parti, ex art. 832 c. p. c., primo comma, possano fare riferimento ad un regolamento arbitrale precostituito. La Corte Superiore di Giustizia Arbitrale amministra con propri regolamenti gli arbitrati internazionali e le controversie araldico – nobiliari. 7. Come si può definire un titolo feudale? Prima della riforma del 1812 il titolo annesso ad un feudo nobile costituiva una unione tra due beni che potevano essere congiuntamente o separatamente alienati, donati, permutati, portati in dote o disposti per testamento. Oggi, il titolo feudale si può definire un bene storico senza territorio. 8. Ci può fare degli esempi di trasmissione del titolo feudale e degli istituti giuridici a cui i nobili facevano ricorso? Vi cito alcuni esempi tratti dall’opera “La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia dalle origini ai nostri giorni” di Francesco San Martino De Spucches: Giovanni Corbino Torres si investì del feudo e del titolo di barone di Baida il 17 novembre 1565 per averlo ricevuto in permuta da Vincenzo Del Bosco  nell’anno 1563 (De Spucches, op. cit., vol. I, pag. 189); Don Pietro d’Aragona si investì del titolo di barone di Baida e dei relativi feudi il 31 ottobre 1579 per averli acquistati da Giovanni Corbino con atto del 5 marzo 1576 ai rogiti del notaio Antonio Occhipinti di Palermo (De Spucches, op. cit., vol. I, pag. 189); Blasco Isfar Corilles si investì barone di Baida il 1° maggio 1588 per avere acquistato il relativo feudo all’asta pubblica avanti la Corte pretoriana di Palermo (De Spucches, op. cit., vol. I, pag. 192); Francesco Pietrasanta si investì del titolo di principe di San Pietro il 19 giugno 1683 per averlo ricevuto in dote dalla moglie Domenica Reytano Alberti (De Spucches, op. cit., vol. VIII, pag. 236). Egidio Pietrasanta vendette le terre di San Pietro a Giuseppe Maria Chiarenza e Trigona con verbo regio ai rogiti del notaio Lorenzo Generale di Palermo del 7 gennaio 1769, riservandosi ad honorem il titolo di principe di San Pietro per se ed i suoi eredi e successori (De Spucches, op. cit., vol. VIII, pag. 236); Il reverendo Nicola Ciafaglione si investì il 20 aprile 1759 del titolo di duca di Villabona per averlo ricevuto dal padre, con testamento ai rogiti del notaio G. B. Magno di Monreale del 4 marzo 1757 (De Spucches, op. cit., vol. VIII, pag. 270; Giuseppe Vittorio Ciafaglione si investì del titolo di duca di Villabona in seguito ad atto di rinuncia in suo favore dal detto reverendo Nicola (De Spucches, op. cit., vol. VIII, pag. 270). Gli esempi potrebbero continuare. 9. Quali erano le disposizioni del capitolo volentes del 1296 di Re Federico II d’Aragona? Nel 1296, Re Federico II d’Aragona, col capitolo volentes ammise la facoltà, senza bisogno del preventivo assenso regio, di permutare, di pignorare, di donare e di disporre per testamento del feudo e del relativo titolo, anche a favore di persona non parente, con esclusione delle Chiese o di persone in abito talare e col diritto, in certi casi, di prelazione della Regia Corte (Carmelo Arnone, Diritto Nobiliare italiano, Storia ed ordinamento, Hoepli, Milano, 1935, pag. 35). 10. La Corona attraverso quali organi controllava i titoli nobiliari e la loro trasmissione a terzi? In Sicilia il controllo della Corona sui titoli nobiliari era inesistente: per esempio, due famiglie siciliane, i Doria ed i Tarallo, avevano lo stesso titolo (barone di Baida, n. d. r.), ed i titolari lo trasmettevano liberamente ai loro discendenti. I diritti di dette famiglie derivavano dall’atto di concessione di Re Martino I d’Aragona dato in Catania ad Antonio Del Bosco in data 21 luglio 1399. Nel 1922, furono annotati nell’Elenco Ufficiale della Nobiltà Italiana gli ultimi investiti di detto titolo: Giovanna Doria (1757) e Simone Tarallo Oliveri (1767). Solo con l’unità d’Italia e la costituzione della consulta Araldica con R. D. 10 ottobre 1869, n. 5318, si mise un relativo ordine sui titoli nobiliari. 11. Alla morte dell’ultimo investito il titolo feudale tornava automaticamente alla Corona? La devoluzione alla Corona del titolo feudale non era automatica. Il titolo nobiliare feudale veniva devoluto alla Corona, iure successionis, a titolo derivativo, in mancanza di eredi successibili in grado (6° grado) al momento dell’apertura della successione, nell’ultimo domicilio del defunto, in forza di un atto di devoluzione compilato da un pubblico ufficiale (notaio). L’atto di devoluzione alla Corona del titolo feudale, preceduto dall’apertura della successione avanti un notaio, costituiva lo strumento necessario in forza del quale il sovrano avrebbe potuto rinnovare il titolo ad altro soggetto. Senza l’atto di devoluzione alla Corona il titolo sarebbe rimasto genericamente nel possesso della famiglia dell’ultimo investito. Gli atti di devoluzione alla Corona dei titoli feudali siciliani, come gli atti di concessione e di investitura, sono conservati nell’Archivio di Stato di Palermo. 12. La legislazione araldico – nobiliare preunitaria è ancora in vigore? L’art. 2 del R. D. 21 giugno 1929, n. 61, e l’art. 2 del R. D. 7 giugno 1943, n. 651, hanno abrogato “le antiche leggi, disposizioni e consuetudini che, con norme diverse nei diversi stati prima dell’unificazione politica regolavano la concessione, il riconoscimento, la successione, l’uso e la perdita dei titoli e delle distinzioni nobiliari”. La Corte di Cassazione, sezioni unite civili, del 23 gennaio 1969, r. g. n. 2652/67, ha stabilito che “tali articoli di legge conservano indubbiamente anche oggi pieno valore, non potendo essere compresi tra quelli dichiarati costituzionalmente illegittimi, dato il loro carattere abrogativo e restrittivo, anziché strumentale, in materia di riconoscimento di titoli nobiliari”. Conseguentemente, hanno cessato di produrre effetti i regolamenti di esecuzione della legislazione nobiliare. La Suprema Corte di Cassazione ha, altresì, preso atto “del vuoto legislativo assoluto creatosi in materia; da una parte con l’abrogazione, a suo tempo disposta, dagli antichi ordinamenti nobiliari, che tuttora resta valida ed operante; dall’altra con la dichiarazione di illegittimità costituzionale di tutte le norme della nostra legislazione (nobiliare, n. d. r.) che a tale riconoscimento avrebbero ancora potuto servire”: 13. Con quali strumenti le corti arbitrali possono colmare il vuoto legislativo nell’amministrazione delle controversie di natura nobiliare? Il Decreto Legislativo 2 febbraio 2006, n. 40, ha riconosciuto (art. 832 codice di procedura civile) per la prima volta l’esistenza delle “istituzioni arbitrali” (camere arbitrali) ed ha dettato alcune disposizioni generali per il caso in cui le parti si affidano ad una istituzione che organizza l’arbitrato. Il principio ispiratore di questa nuova disciplina attribuisce all’istituzione arbitrale il compito di amministrare l’arbitrato con un proprio regolamento precostituito, solo se previsto dalle parti nella convenzione arbitrale. Il Tribunale Arbitrale  della Corte amministra gli arbitrati internazionali che hanno per oggetto l’accertamento in via incidentale della spettanza dei titoli nobiliari, con un proprio regolamento. 14. Nel rivendicare la spettanza dei titoli feudali è necessario predisporre un albero genealogico che provi la discendenza del candidato dall’ultimo investito? Secondo il diritto italiano (art. 467 c. c.) la produzione dell’albero genealogico è necessaria nei casi di successione per rappresentazione, ove i discendenti legittimi o naturali, sia nella linea retta sia nella linea collaterale, subentrano nel luogo e nel grado del loro ascendente, in tutti i casi in cui questi non abbia potuto o non abbia voluto accettare l’eredità o il legato. La rappresentazione, già prevista agli artt. 729 e 899 dal codice civile del 1865, ha luogo in infinito (art. 469 c.c.).Si ha rappresentazione unicamente nella successione testamentaria, quando il testatore non ha proceduto per il caso in cui l’istituito erede o legato non possa o non voglia accettare l’eredità o il legato. Conseguentemente, l’albero genealogico è necessario ai discendenti di un erede di un titolo nobiliare che non abbia potuto o voluto accettare il titolo nobiliare. Negli altri casi si applicano le norme sul possesso. 15. Attraverso quali procedure l’odierno possessore di un titolo feudale può ottenere dal Tribunale Arbitrale della Corte Superiore di Giustizia Arbitrale il riconoscimento in via incidentale delle spettanze di detto titolo in capo a se stesso? Ai fini dell’art. 14 del regolamento per le controversie araldico – nobiliari amministrate dalla Corte Arbitrale  è riconosciuto in via incidentale il possesso dei titoli non devoluti alla Corona e posseduti dall’ultimo investito prima del 10 agosto 1812. L’odierno possessore deve manifestare la sua volontà di volere esercitare il possesso del titolo feudale in modo visibile e non occulto mediante notifica per pubblici proclami e deve esibire, inoltre, un certificato notarile attestante il possesso di detto titolo in capo a se medesimo. L’attestato di possesso rilasciato da un pubblico ufficiale (notaio) costituisce un titolo idoneo e valido, ed il possessore non ha alcuna necessità di invocare altre testimonianze ai fini della prova del dominio sul bene storico. La produzione  della prova del possesso immemorabile del titolo feudale non può trovare ingresso nell’ambito applicativo dell’art. 14 del regolamento arbitrale della Corte, poiché nell’ordinamento giuridico vigente l’istituto del possesso immemorabile opera soltanto nell’ambito dei rapporti di diritto pubblico con l’amministrazione dello Stato ed in particolare, per quanto concerne i rapporti reali, è applicabile a quelli che hanno ad oggetto beni demaniali. Per contro, nei rapporti di diritto privato, ivi compresi quelli relativi ai beni patrimoniali dello Stato, il possesso immemorabile venne abrogato dal codice civile del 1865 e non più richiamato dal codice civile vigente. Parimenti non può trovare ingresso nell’ambito applicativo di detto art. 14 “il possesso per lungo uso”, in quanto il possesso e l’uso di fatto sono incompatibili tra loro. Il possesso non si fonda necessariamente su un atto di concessione, ma sulla effettiva disponibilità del bene; invece, il diritto di uso è originato da un contratto stipulato tra il proprietario e l’usuario, una diversa origine non può configurarsi come costitutiva di un diritto reale di uso, che sarebbe essenzialmente diverso da quello previsto dalla legge, nel quale è mantenuto il principio della tipicità dei diritti reali. Ne consegue che l’uso di fatto di un bene storico altrui senza un atto di concessione non può dar luogo ad acquisto per usucapione di un diritto di uso di detto bene. Infatti, l’art. 8 del R. D. 651/1943, separò il possesso del titolo dall’uso di fatto, come previsto dal codice civile del 1942, e proibì, l’acquisto delle distinzioni nobiliari “per lungo uso”. Conseguentemente, la dimostrazione del lungo uso di fatto è irrilevante ai fini legali del riconoscimento in via incidentale del possesso di un titolo feudale. 16. Se il titolo feudale è un bene storico vuol dire che esso appartiene al patrimonio della Repubblica italiana? La legge fondamentale della Repubblica italiana, il 1° gennaio 1948 ha rinnegato i titoli nobiliari, conseguentemente il possesso del titolo feudale come bene storico può continuare a trasmettersi sino all’infinito. Per esempio, prima della stipula della Convenzione di Parigi del 14 novembre 1970 e della sua ratifica da parte italiana con Legge 30 ottobre 1975, n. 873, entrata i vigore il 2 gennaio 1979, i privati che avevano acquistato in buona fede il possesso di un bene storico appartenente a Stato estero presente in Italia ne diventavano, dopo dieci anni, legittimi titolari (artt. 1145 – 1153 c. c.). 17. Quale tipo di possesso produce effetti giuridici idonei all’acquisizione del possesso del titolo feudale? In tema di conservazione di possesso è necessario che il possessore abbia l’effettiva disponibilità del titolo, qualora tale disponibilità sia di fatto preclusa, il solo elemento intenzionale non è sufficiente per la conservazione del possesso. L’animus possidendi è costituito dalla coscienza e volontà di esercitare sul bene storico una signoria corrispondente alla proprietà o altro diritto reale (uti dominus). Ancora, l’animus possidendi non consiste nella convinzione di essere il titolare di un diritto, bensì nell’intenzione di comportarsi come titolare del diritto, indipendentemente dall’effettiva esistenza del relativo diritto o della conoscenza del diritto altrui. Sia con riguardo al vigente codice civile, sia in relazione al codice civile del 1865, l’atto di acquisto del possesso costituisce atto giuridico di natura non negoziale richiedendosi per esso la sola volontà di esercitare la propria signoria sul bene. Conseguentemente per l’acquisto del possesso non occorre la capacità di agire, necessaria per i negozi giuridici, ma è sufficiente la capacità di intendere e di volere (capacità naturale). Ai fini del mantenimento del potere di fatto non occorre da parte del possessore l’esplicazione di continui e concreti atti di fruizione del possesso sul bene, ma è sufficiente che esso resti nella virtuale disposizione del possessore. 18. A quale legge fa riferimento di principio l’art. 14 del regolamento per le controversie araldico – nobiliari amministrate dalla Corte Superiore di Giustizia Arbitrale? L’art. 14 del regolamento per le controversie araldico – nobiliari amministrate dalla Corte arbitrale fa riferimento di principio all’art. 113 del R. D. 21 gennaio 1929, n. 61, che riconobbe legittimo l’acquisto delle distinzioni nobiliari unicamente sulla base della esibizione della prova del possesso pubblico e pacifico per lungo uso.